Grande Giù

Empatia

Empatia

di Giuliana Gemelli

Vorrei cominciare con una citazione da Giordano Bruno molti secoli orsono ma immensamente attuale e con una domanda.
“Non so quando ma in tanti siamo venuti in questo secolo per sviluppare arti e scienze. Porre i semi della nuova cultura che fiorirà inattesa, improvvisa quando il potere si illuderà di aver vinto”
La domanda è la seguente :
In questo secolo umanesimo e anti-umanesimo coesistono ?
Un fatto è certo e ormai ampiamente appurato: alla ricerca di una conoscenza finalizzata ai valori ha fatto riscontro e continua a fare riscontro una metafisica impoverita, che considera ogni cosa come un ente da conoscere con sempre maggiore esattezza e da manipolare con sempre maggiore sofisticazione.
I rapporti di dominio, la diseguaglianza, la sopraffazione, dominano sempre più la scena umana; essi derivano da forze arcaiche e forze evolutive contrapposte che si agitano nella nostra psiche. Proprio questa lato notturno e conflittuale distingue una consapevole visione umanistica dal semplice umanitarismo nonché dal positivismo che crede ciecamente nell’equazione progresso-miglioramento. Nelle sue formulazioni più attente, l’umanesimo ha sempre avuto un tratto scettico, anche quando si è appellato a valori e imperativi universali, nei suoi comportamenti l’uomo può rivelarsi un essere ambiguo, che ha un fondo indecifrabile ed enigmatico. Comprendere questo fondo, con strumenti non necessariamente scientifici, è uno dei compiti degli studi umanistici. Gli strumenti non possono essere rigorosamente scientifici perché la scienza non può accettare l’ambiguità strutturale, ciò che per definizione è irrisolvibile, polisemico, aporetico; e neanche accetta il darsi di alcunché come lo spirito, la psiche, l’essere, che non sono enti tangibili o sperimentabili: sono qualcosa di sovrasensibile e perciò richiedono strategie cognitive diverse dall’esattezza e dall’accertamento empirico. Quando si escludono le entità dubbie, quando si ritengono superabili le ambiguità, i primitivismi, le dualità dell’uomo, allora inevitabilmente si propongono descrizioni che per un verso impoveriscono l’esperienza vissuta per l’altro estremizzano e sublimano le certezze scientifiche.
Ecco perché per un’antropologia umanistica il dialogo con le scienze è necessario ma non sufficiente; in altri termini, i compiti restano distinti, e va arginata la tentazione di rendere l’umanesimo soltanto una forma di divulgazione di fatti e teorie scientifiche, che nel presente sono sempre più evidentemente connessi proprio al ruolo costruttivo e fondante delle scienze umane che sono indissolubilmente connesse alla valorizzazione dell’umano globale. Nei più recenti studi la filosofia della natura non coincide con l’antropologia a matrice esclusivamente umana e si fonda sul principio che tutto ciò che sente è vita. In una recente lettura magistrale all’ Università di Bologna il fisico Federico Faggin ha esteso questo ragionamento che pone al centro esperienza e sensazione anche alla sua disciplina che sta evolvendo rapidamente ad integrare l’approccio quantistico. In particolare tra gli innumerevoli studi su questa tonalità a intensità crescente e dunque endemica l’esperienza conoscitiva non si limita all’attività pensante ma integra i dati sensibili, I filosofi direbbero pre-categoriali dell’esperienza sensibile. “Un essere vivente è tale un quanto sente e sente in quanto è sintonizzato con la vita. Attraverso il sentire ogni specie fa vibrare il piano espressivo della vita in modo differente ma comprensibile nelle linee essenziali anche ad altre specie. Sentire ed espressione sono dunque collegati e il vettore della loro connessione non è la razionalità ma piuttosto l’intelligenza affettiva e le sue forme di manifestazione, tra le quali l’empatia. Il sentire, afferma Guido Cusinato, è la dimensione vitale della materia La dimensione che permette di interagire col campo espressivo e la vita non è altro che una forma di sintonizzazione espressiva” a cui – mi permetto di aggiungere – collaborano diverse risorse conoscitive, di comunicazione, di introspezione, di comprensione dell’alterità e dei contesti. Il sentire è ciò che connette ogni organismo vivente alla vita ma è anche il modo in cui le vita si esprime in ogni individualità, non necessariamente umana ma anche inter-specifica.
Da ciò discende un approccio che non si identifica col codice illuminista che è l’apice dell’umanesimo della prima modernità. Dignità, libertà, uguaglianza, diritti, sono le conquiste di quella che per secoli ha messo al centro l’approccio antropologico.
Se valori e diritti umani derivano da un essere ambiguo, essi vanno letti in chiave regolativa non assoluta, sono conquiste storiche, soggette a reversibilità o a differenze di contesto. e di prospettiva.
Dove c’è finitezza c’è contrasto, limite; la visione anti-specista, eliminando i confini, le discontinuità, i contrasti, a favore della mescolanza e della fusione sistematica, tende verso l’infinito, verso la negazione del finito.
Ciò non vuol dire che una filosofia umanistica sia pessimista, oscurantista o addirittura reazionaria. Anzi, la speranza nell’uomo,
la scommessa morale nella sua capacità di migliorare, di saper usare il progresso materiale e cognitivo per arginare il male endemico che lo attanaglia, è un tratto tipico di tutti gli umanesimi. Nelle forme più riflessive e argomentate, tale speranza si basa però sull’attenta analisi della condizione umana, dei suoi limiti costitutivi, dunque una speranza che non solo mette in bilancio tali limiti, ma fa di essi un momento imprescindibile, ogni nostra esperienza è un innesto possibile di nuovi orizzonti, volti a migliorare la coesistenza tra le specie, per sviluppare il lato meno aggressivo e oppressivo della nostra umanità. Finitezza è un concetto filosofico che ha una serie di implicazioni metafisiche e morali, perché sta in relazione con il tempo, la libertà, il mistero, con la presenza del male e del negativo Senza entrare in quest’analisi che esulerebbe dal nostro tema, sarà sufficiente osservare che se la finitezza non è un limite esterno, un ostacolo momentaneo che va solo superato, se dunque è un tratto costitutivo dell’uomo, allora essa inevitabilmente pone dei limiti all’idea di progresso e di perfettibilità. Altrimenti ammetteremmo l’infinito nella dimensione umana, ammetteremmo che difetti e problemi dell’uomo sono solo passeggeri, ma allora la finitezza non sarebbe costitutiva. Se invece è tale, allora il progresso non va concepito in modo lineare, né è mai esente da un lato negativo. Certo, si progredisce, si lotta sempre con mezzi sempre più
efficaci per abbattere i mali endemici dell’uomo, ma non possiamo prevedere sviluppi e conseguenze esiti inattesi ed endemici e il COVID ce la ha dimostrato. Anzi più cresce il potere, il progresso, più qualcosa ci sfugge, nel senso che non lo possiamo prevedere e nel senso che va perso. Nell’uomo c’è un aspetto primitivo e insondabile, dove primitivo non vuol dire semplicemente preistorico, ma remoto, lontano dal presente e soprattutto inatteso; il passato non è solo lo stadio precedente del presente, ma una dimensione che sprofonda all’indietro e ritorna in forme imprevedibili che la nostra specie non è in grado di cogliere pienamente.-. Il progresso è una straordinaria caratteristica antropologica, ma va osservato senza ipnotismo unidirezionale e riduttivistico.
Di qui l’esigenza di una critica dei limiti dell’uomo, dunque, non soltanto una critica della ragione, ma dei limiti di tutte le sue facoltà (della sua fantasia, del suo sentire, della sua responsabilità) Da qui nasce anche l’interrogativo sulla possibile esistenza in prospettiva di un’antropologia non umanistica che fa emergere come afferma il filosofo Rocco Rochi, di fronte al predominio di categorie maggiori quali razionalità, sistematicità, ri-producibilità, riduttivismo sperimentale, di un’ altra forma di approccio basata su canoni minori, quali vitalità, vulnerabilità, empatia, rappresentazione. Non è un approccio nuovo, che solo negli ultimi anni sta divenendo piuttosto endemico e corrisponde al superamento dell’ antropocentrico e alla valorizzazione altrettanto endemica di componenti che non sono state nei secoli scorsi al centro della riflessione filosofica e umanistica, tra queste in primis l’empatia. Un autore che ha avuto un ruolo determinante in questo impatto è lo psicanalista e filosofo James Hillman scomparso quaranta anni or sono che pero in modo piuttosto inspiegabile non è tra i punti di riferimento degli autori contemporanei che abbracciano la filosofia della natura a cui facciamo riferimento Uno dei suoi mantra ricorrenti è infatti l’idea che l’anima é la parte più nascosta del sintomo. Qui si apre in tutte le dimensioni una riflessione che è al centro del nostro ragionare che molto deve a Hillman una sorta di elevazione che continuamente slitta dal piano fisico a quello spirituale e dal piano individuale si volge quello planetario che Hillman rappresenta nella figura di Oceano. Oceano evoca immagini per ciò che vive in lontananza e che occorre raggiungere non nella dimensione dello spazio e del tempo, ma del desiderio, che è ricerca dell’andare oltre, non necessariamente oltre la vita, ma in altre dimensioni, attraverso immagini che non coincidono con la parvenza visibile o con uno spazio fisico delimitato, una sembianza che evoca insieme una forma interiore e la sua proiezione all’esterno. Quando proviamo
una forte emozione siamo spinti oltre”. Questo aspetto significativamente viene percepito anche nel proliferare delle rappresentazioni della realtà virtuale che è ormai parte integrante della nostra vita. L’immagine -afferma Hillman- è ciò che ti solleva e ti porta via… può essere una musica, un immagine, un allestimento artistico”. Le potenzialità evocative implicite in questo percorso non dipendono dalla ragione ma dall’intelligenza affettiva che è spesso inseparabile dall’empatia che si connette all’Anima del Mondo di cui noi facciamo parte allora ciò che accade nell’anima universale accade anche a noi. L’empatia in effetti non è solo la capacità di rispondere all’altro ma anche di rendere l’altro capace di rispondere. Noi siamo parte dell’anima mundi e anche in modo non consapevole soffriamo della sofferenza che la riguarda». In un saggio apparso per la prima volta nel 1982, in seguito ripubblicato da Adelphi (col titolo Presenze animali), Hillman indica un percorso terapeutico: salvare gli animali per lo meno nella nostra dimensione interiore e psichica: una sorta di ecologia della mente in una dimensione fisica che sembra averne decretato la dissoluzione, laddove essa era presente e vitale, sotto sembianze zoomorfe nel sentimento religioso delle civiltà antiche e che nelle civiltà contemporanea tende a presentarsi in forma residuale ed evocativa nella dimensione dei sogni, Hillman aveva raccolto sogni su animali, producendo un enorme repertorio che attraversava e dava forma alla psicologia del profondo, riconnettendola all’ anima mundi, andando oltre l’idea freudiana che riduceva l’animale a funzione interiore dell’umano, a un’iconografia del profondo (il gatto, il topo, il serpente come equivalenti fallici; il rospo come grembo materno), ma anche oltre le derive junghiane contemporanee, per cui l’animale è assimilato a una traccia filogenetica, una sorta di totem “primitivo” della psiche, oggetto di razionalizzazione, serraglio di una dimensione individuale, che escludeva ogni possibilità di interiorizzazione, quale impulso alla compenetrazione junghiana con l’anima mundi, in una sorta di funzionalismo riduttivo laddove l’animale poteva invece avere il ruolo della comprensione interiore, della penetrazione psichica: “Comprendi che in te ci sono anche uccelli del cielo. Comprendi che tu sei un altro mondo in piccolo, e che in te ci sono il sole, la luna e anche le stelle”, scriveva Origene nel III secolo. Una dimensione non estrinseca ma interna alla dimensione profonda della psiche, attingibile attraverso i sensi. L’origine della specie, l’animale, è dentro l’anima ed è connesso all’anima da un flusso di immagini, da tracce evocative “Il corpo è sempre portato dall’anima in un modo particolare, e questo modo di “portare” deriva dalle immagini dell’anima”. Per Hillman non esiste il corpo in quanto tale, non vi sono accessi fisici ma estetici che aprono orizzonti metafisici che aprono un universo fenomenico in cui gli avvenimenti sono rivelazioni, manifestazioni di immagini, che evocano una ineludibile nostalgia ecologica, che dobbiamo e possiamo preservare “L’animale”, come scrive Hillman, “è la risposta più risoluta al nichilismo”. Soprattutto apre la dimensione dell’altro che cessa di essere alterità. E veniamo al punto focale del nostro ragionamento che si vuole a mettere in relazione empatia, scienze umane e cura. Negli ultimi decenni con l’intenso sviluppo della realtà virtuale il potenziale dell’empatia si è allargato all’esperienza estetica, non solo oltre gli orizzonti di un sapere di stampo neuro-scientifico ma verso ambiti trans- disciplinari che includono in primis l’ ETICA DELLA CURA come base fondamentale per ricostruire una rete di relazioni inter-specifiche e vieppiù complesse. Questo percorso è connesso in modo sempre più consapevole a un profondo cambiamento che riguarda la filosofia della natura sempre più orientata al superamento dell’antropocentrismo e all’emergere di problematiche inerenti l’interspecie. Questo processo ha affiancato per strade diverse ma con una certa simultaneità temporale in varie il consolidarsi di un nuovo pensiero non più solo biomedico ma bio-socio-medico che ha generato non un nuovo paradigma alla Khun ma piuttosto una nuova praxis, che connette in modo crescente salute e benessere, guarigione ed eudaimonia, mettendo in rete nuovi strumenti non solo di comprensione ma di costruzione di una realtà che sfugge ai criteri interpretativi mono- o pluri-disciplinari tradizionali. L’azione assistenziale olistica é indirizzata verso l’individuazione delle risorse e del potenziale terapeutico e rigenerante del sistema mente- corpo. in cui il modelle dominante della medicina delle evidenze si apre alla dimensione del vissuto individuale che alle scale quantitative e alle procedure di misurazione affianca scale di valori, esigenze sociali e comunicative e responsabilizzazione delle persone, limitando e superando della valutazione dei risultati delle azioni terapeutiche ai soli indicatori biologici e alle evidenze empiriche da essi prodotte, mostrando che non è possibile misurare la salute senza tener conto delle dimensioni complesse delle benessere inerente soggetti culturalmente diversi capaci di elaborazioni simboliche diversificate e ingentilite eticamente responsabili dei loro comportamenti, connessi a reti di relazione sociali che a loro volta sono connessi a campi di forze in cui è impossibile distinguere in modo assoluto e sistematico normale e il patologico o . Queste osservazioni non sono affatto nuove ma risalgono agli zanni sessanta nell’illuminante pensiero di Georges Canghuilhem e di Michel Foucault.
Ai singoli professionisti non è più sufficiente recepire informazioni molteplici derivanti da competenze diverse, ma è necessario imparare ad interagire e a lavorare in gruppo, ricercando una mediazione e una sintesi tra differenti apporti che non sono una mera sommatoria di conoscenze, quanto piuttosto come produzione di nuovi modelli di conoscenza e di nuove metodologie di applicazione della medesima che coinvolgono in maniera consapevole non solo gli operatori medico sanitari ma anche i pazienti con lai crescente diffusione del Patient engagement che cambia la percezione stessa della cura e della applicazione dei procedimenti scientifici in cui la dimensione della science with patient input collabora col patient input. Questo percorso ha assunto la denominazione di medicina traslazionale ovvero la capacità di trasferire nuove conoscenze dalla scienza di base a quella biomedica applicata, in modo da generare applicazioni diagnostiche e terapeutiche avanzate, in tempi rapidi, offrendo nel contempo nuovi strumenti d’indagine. In un processo evolutivo costante, convertendo la storica eredità ricevuta da Claude Bernard nel suo approccio alla medicina sperimentale, nella consapevolezza condivisa che nessuno può procedere da solo non solo rispetto alla propria generazione – trans-disciplinarità – ma anche rispetto alla proiezione della ricerca verso il futuro con la conseguente responsabilità morale ma anche economica e strategica rispetto a scelte e a investimenti che riguardino le generazioni future . L’incremento della robotica ha da una parte rafforzato questo orientamento ma si appresta anche a contraddirlo o quantomeno a relativizzarlo con l’emergere di una visione che affiderebbe ai robot il compito di realizzare in autonomia gli interventi con la sola supervisione dell’operatore sanitario posto alla consolle chirurgica.
Ci troviamo di fronte a simultanee evoluzioni complesse e talora contraddittorie che riguardano tutti gli aspetti sin qui evocati inclusa in primis l’empatia, aspetti endemici perché emergenti e condivisi in vari ambiti. Il percorso è tracciato. Il confronto rimane aperto alle proposte e ai contributi di chi vorrà interpretare IL NUOVO PENSIERO BIOMEDICO come spazio di interazione metodologica, formativa ed operativa che, travalicando il senso dell’appartenenza a categorie professionali distinte, interpella l’intelligenza e l’impegno di attori diversi all’interno di un nuovo, generale paradigma scientifico orientato alla sinergia e alla cooperazione.
Siamo di fronte a trasformazioni simultanee che riguardano vari ambiti della scienza ed in particolare della scienza medica e delle sue applicazioni non solo cliniche e tecnologiche ma anche etiche e psicologiche, con la consapevolezza che questo approccio avrà effetti anche sul futuro, dunque secondo un’ etica della cura che
anche dal punto di vista dell’investimento economico e finanziario e della organizzazione strategica e manageriale avrà effetti di responsabilizzazione nei confronti del futuro. Innanzitutto del futuro dei pazienti attraverso il loro sistematico coinvolgimento che passa attraverso consapevolezza, responsabilizzazione collaborazione, relazione. In questo percorso l’empatia che è il principio di attivazione della comunità terapeutica formata da medici, personale medico sanitario , pazienti e care givers si integra con un altro fattore di crescita condivisa. Una pratica antichissima che lega indissolubilmente la comunità terapeutica valorizzando individualmente i singoli componenti, secondo un modello interattivo che è molto simile a quello dell’equipaggio di una barca in cui ogni componente evolve e si impegna individualmente eluendo le regole e i principi di un’intera squadra governata da nocchieri, ma anche ispirata dalle variazioni del contesto, dal variare delle condizioni naturali, dalla presenza di fattori esogeni come il vento. La cura lungi dal ridursi all’attività terapeutica più o meno standardizzata secondo protocolli e percorsi di laboratorio, si concentra sul paziente non come soggetto da curare o oggetto di cure ma come persona che anche attraverso la malattia evolve scopre aspetti nascosti profondi o trascurati della propria sensibilità, del proprio esistere e del proprio essere engaged in una rete di relazioni e di collaborazione
che lo riguardano, non in modo subordinato ma in piena autonomia, sintonizzandosi con la comunità terapeutica in piena consapevolezza e sulle basi di un’ osmosi emotiva che nutre la comunicazione in un percorso che rende ogni individuo partecipe delle istanze e degli input complessi provati dagli altri membri del gruppo, rimanendo se stesso ma al tempo stesso ampliando i confini del proprio sé.
Il filmato che vi presenterò in conclusione illustra concretamente questa osmosi evolutiva tra empatia e maieutica ed è il risultato di un percorso importantissimo nella evoluzione della nostra comunità terapeutica in cammino che unisce e competenze diverse ed articolate, generazioni diverse di professionisti ed alcuni nocchieri che ci hanno orientato e nutrito nella nostra ricerca della cura rivolta alla persona: Non solo scienziati e medici, antropologi ed umanisti, psicologi e veterinari, amministratori e consulenti ma anche editori e registi nel senso pieno del termine capaci cioè di reggere pienamente un’esperienza comunicativa che coinvolge le persone in modo consapevole e riflessivo in una interazione che si rivela terapeutica.
GRAZIE Raffaele Lello Sansone, il nostro regista grazie Alessandra Gorini la nostra psicologa skipper che ci hanno ispirato e guidato e grazie alla nostra piccola grande squadra in cui i ruoli non sono mai impositivi o codificati ed il nostro nocchiero medico e scienziato è anche un umanista a Part Entiére.
Se volete saperne di più leggete i libri che G. Gemelli e F. Lanza hanno coordinato e scritto insieme